Altre Resistenze, disseppelliamo le nostre storie

Nei giorni della memoria della resistenza, cerchiamo il filo che ci lega a quella storia, cerchiamo i racconti di quelle persone che oggi come ieri furono le più schiacciate e oppresse dal regime fascista, di quelle vite marginali che si sono ribellate e che nella resistenza hanno anche lottato per la propria affermazione. Sono storie di vita, di dissenso, di costruzione di legami e di apprendimento, sono esistenze che hanno tracciato il cammino di una resistenza che non è mai finita e che continuiamo a scrivere. 

Sentiamo il bisogno di raccontare e disseppellire quelle narrazioni che la Storia ufficiale ha lasciato da parte. vogliamo raccontare, insieme alla resistenza delle donne, anche quella di altre soggettività che contribuirono alla Resistenza.

Abbiamo raccolto e scelto alcuni racconti fra i molti che ci piacerebbe riportare, provando a tenere insieme le resistenze  sulle linee del genere, della razza e della classe, in alcuni casi è davvero difficile trovare anche solo poche righe che parlino di queste esperienze. Se negli anni la storia delle donne nella resistenza è riuscita ad affermarsi, grazie alle lotte delle donne, questo resta ancora complesso per altr* soggettività, e bisogna ancora inistere per farne emergere le tracce.
Kebedech Seyoum
Nel 1935, l’Italia invade l’Etiopia. Nonostante la superiorità tecnologica dell’esercito italiano che usa carri armati, aerei e gas, e la fuga dell’imperatore Hailié Selassieall’estero, c Kebedech Seyoum era una di loro. Nata nel 1910, era sposata con un nobile di origine reale, capo di un esercito. Pochi giorni dopo aver partorito, apprende che suo marito è stato ucciso dai militari italiani, dopo essersi arreso con la promessa di aver salva la vita.
Kebedech riunisce un esercito sotto il suo comando e affronta ben 14 volte l’esercito italiano. Si rifugia nel Sudan,dove muore nel 1976.
La Brigata Mario e i partigiani d’oltremare
Oggi la Mostra D’Oltre mare a Fuorigrotta è un enorme padiglione fieristico, ma poche persone conoscono la storia che lega questo luogo al passato coloniale italiano. 
Nel 1940, con lo scopo di mettere in mostra la vita e gli usi nelle colonie, sessanta persone fra eritrei, somali ed etiopi furono imbarcati per Napoli e chiamati ad incarnare la diversità delle terre coloniali e a trasformarsi in motivo di attrazione e istruzione. Furono ingaggiati soprattutto operai e artigiani, dal momento che il compito di queste persone era anche costruire da sè i villaggi in cui si sarebbero esibiti.
L’esposizione, però, ebbe vita breve. Un mese e un giorno dopo l’inaugurazione, l’Italia entrò in guerra e, a causa delle leggi razziali, fu proibito ogni contatto con l’esterno ai prigionieri delle colonie presenti nella mostra. Lontano dai propri riferimenti, dalle proprie case e dai propri affetti, molte persone si ammalarono sia fisicamente che mentalmente, anche a causa del cambiamento di ambiente. Nel ’43 i nativi, che vivevano come internati, furono trasferiti nel «Campo indigeni di Treia», nelle Marche centrali, un alloggio dove furono costretti a vivere in un regime di semilibertà. Tre di loro, Abbagirù Abbauagi, Scifarrà Abbadicà e Addisà Agà riuscirono a fuggire e, grazie al sostegno della gente che li guidò verso i nascondigli dei partigiani, raggiunsero il San Vicino, per unirsi alla “banda Mario”. 
Così chiamata per il suo comandante Mario Depangher, ex prigioniero istriano, la banda Mario fu uno dei primi gruppi della resistenza marchigiana e ben presto finì per agglomerare  croati, serbi, inglesi, russi, scappati dei campi per prigionieri di guerra, ma anche somali, eritrei ed etiopi. Un mix di lingue, culture e religioni, “a very mixed blunch”, l’avrebbe definito un membro britannico della brigata, unito dallo stesso obiettivo: liberare l’Italia dall’invasione nazifascista.
Delle imprese partigiane degli africani del battaglione Mario non si sa molto. Certo è che presero parte a tutte le rappresaglie del gruppo che per 10 mesi fu uno dei più attivi nell’entroterra maceratese. Molti persero la vita , tra questi anche Carlo Abbamagal, ucciso il 24 novembre 1943 nel corso di una missione a Frontale di Apiro, durante la quale furono catturati alcuni tedeschi e un interprete italiano. 
Oggi c’è una lapide a ricordarlo, nel cimitero di San Severino Marche. Vi si legge: “Nato ad Addis Abeba, morto sul Monte San Vicino. Etiope partigiano del Battaglione Mario di San Severino Marche. Insieme ad altri uomini e donne provenienti da tutto il mondo, caduto per la libertà d’Italia e d’Europa”.

 

La barricata dei femminielli a piazza Carlo III
Dal 27 al 30 settembre 1943, Napoli si insorge contro le truppe tedesche e si copre di barricate. Durante queste giornate parteciparono anche un gruppo di femminielli del quartiere San Giovanielli, dietro piazza Carlo III. Rubarono learmi nella caserma di corso Malta per poi difendere una barricata che impediva l’entrata nel quartiere. Parteciparono anche ai combattimenti tra via Foria e piazza Carlo III. Si dice che i femminielli si potevano permettere di essere in prima linea, perché non avevano niente da perdere, non avendo famiglie. Avevano anche una grande abitudine nel confrontarsi con la polizia, in quanto perseguitate dalla polizia fascista. Alcuni furono pure mandati al confino.
Tra i leader di questo gruppo c’era Vicienz’ o’ femminiell’. Viveva in un basso di via Santi Giovanni e Paolo, dove vendeva panini, sigarette e fazzoletti, e si prostituiva la sera. La sua casa serviva da luogo di incontro per i femminielli della zona. Secondo le testimonianze, è nel suo basso che si incontrarono per decidere cosa fare durante le 4 giornate, o forse in un terreno dove avevano l’abitudine di incontrarsi, accanto a un cinema della zona. Negli anni ’80 Vicienz’ partecipera anche alle proteste contro l’abusivismo edilizio post-terremoto.
Dovremmo aspettare il 2018 perché il comune installi una targa commemorativa della loro partecipazione alla resistenza.
La resistenza di omosessuali e lesbiche 
Sappiamo molto poco degli omosessuali e delle lesbiche che hanno partecipato alla resistenza, anche se devono essere stati sicuramente numeros*. A causa della mancanza di ricerca storica su questo argomento, le loro storie non sono state ancora portate alla luce. Qui ne vorremmo raccontarne alcune.
Per alcun*, la resistenza comincia ben prima della guerra, come nel caso di Maria Antonietta Falorni (1910-1982) e della sua compagna Renata-Gradi (1910-?). Studentesse all’università di Firenze, alla fine degli anni 1920, creano una  rete antifascista. Nel novembre 1930 vengono arrestate e condannate a 5 mesi di carcere per aver diffuso un volantino antifascista.
I legami emotivi hanno giocato un ruolo importante nelprendere parte alla resistenza di molti omosessuali, come fu per Carlo Coccioli, partigiano nella formazione Giustizia e Liberta in provincia di Firenze dal 1943, che dopo la guerra ha raccontato dell’importanza delle sue relazioni con i suoi due aiutanti di campo. 
O per Franco Zeffirelli, anche lui partigiano in provincia di Firenze, sul Monte Morello con la divisione Arno, che ha raccontato di aver avuto la sua prima storia d’amore e la sua prima esperienza sessuale con un altro partigiano. Dichiara nel 2013: “Scoprii l’amore. Feci la mia conversione sessuale lassù, in montagna. In quegli aspri momenti con la morte che incombeva mi si rivelò l’uomo in tutta la sua straordinaria bellezza”.
Alcuni di lorosubirono discriminazioni ancheall’interno dei propri movimenti partigiani. Un caso emblematico è quello di Josip Mardešic,proveninte dall’isola di Lissa, oggi in Croazia, ma dal 1941 al 1943 parte dell’Italia. E’ là che raggiunge i partigiani del partito comunista nell’autunno 1941. Incaricato delle trasmissioni radio, Josip sviluppa un sistema di comunicazione radio criptato tra i diversi gruppi partigiani sparpagliati per la Croazia. Diventa così un membro dello stato maggiore dei partigiani. Tuttavia, nel febbraio del 1944 le sue relazioni intime con alcuni partigiani furono scoperte e, anche per la visibilità che aveva ottenuto nel movimento, divenuto nel frattempo l’Esercito Popolare di Liberazione, fu condannato a morte e fucilato il 4 marzo del 1944, per aver “pervertito” i soldati e danneggiato l’immagine dell’esercito. 
Per molt* altr*, la militanza non si ferma con la caduta del fascismo. Se Maria Antonietta Falorni milita dopo guerra nel movimento comunista, altr* militano anche per i diritti omosessuali. Carlo Cocciolo, che dopo il fronte si laureò all’Orientale di Napoli, fece scandalo nel 1952 con la pubblicazione di Fabrizio Lupo, romanzo che racconta di un giovane cattolico che scopre la sua omosessulaità. A causa dello scandalo, si trasferisce in Messico, dove visse fino allamorte, avvenuta nel 2003. 
Un altro caso è quello di Aldo Braidanti (1922-2014), militante a Firenze nel movimento Giustizia e Liberta dal 1940 e poi nel partito comunista. Nel 1968 fu condannato a 9 anni di carcere (ne farà solo 2) per “plagio” in seguito alla sua relazione col giovane Giovanni Sanfratello, figlio di un fascista. Il reato di plagio era previsto dal codice penale fascista, ed era definito come il “sottoporre una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione”. La sua condanna suscita un movimento di sostegno da parte degli intellettuali, che ha condotto all’abolizione del reato nel 1981.
Le Mondine

“son la mondina son la sfrutatta son la proletaria che giammai tremò, mi hanno uccisa incatenata, carcere, violenza, nulla mi fermò”

Dal 12 al 21 giugno del 1944 si svolge lo sciopero generale nelle risaie, al quale prendono parte 6-7000 mondine della Bassa bolognese, del ferrarese e della Romagna. L’agitazione fu preparata dai comitati comunali. Le scioperanti, pur stremate dalle privazioni portate dalla guerra, presero parte allo sciopero supportate dai Gruppi di Difesa della Donna.
Le rivendicazioni vennero pubblicate  sul foglio clandestino “La Mondariso”  fondato proprio in occasione di questo sciopero, scrivono le Mondine:
“I padroni sfruttatori e i falsi sindacati fascisti sono in lega per tenere il piede sul collo; essi vogliono succhiarci fin l’ultima goccia di sangue che ci rimane; vogliono tenerci schiavi per servirsi di noi come bestie. […]
I sindacati scoprono da soli il loro gioco: essi sono i difensori dei padroni e gli aguzzini della massa operaia. Noi li smascheriamo e li combattiamo. Non vogliamo più saperne dei falsi sindacati fascisti; non abbiamo bisogno di intermediari ruffiani.
I sindacati siamo noi!
Noi andremo dai padroni e diremo: vogliamo ridurre le ore di lavoro; vogliamo l’aumento di paga; vogliamo il latte, la colazione e la minestra; un vestito e un fazzoletto da lavoro; vogliamo due coperture per bicicletta; vogliamo 4 Kg. di riso per ogni giornata di lavoro; vogliamo i rifugi antischegge sul luogo di lavoro per ripararci durante l’allarme. […]
Se no faremo sciopero. Questo è quello che diremo ai padroni.
Ai sindacati fascisti e a tutti i traditori fascisti noi diremo: voi ci avete tenuto il piede sul collo 20 anni ed ora volete rendere più pesanti le catene che ci opprimono; voi avete chiamato i tedeschi in Italia a rubarci i nostri uomini e
nostri prodotti; voi ci avete portati alla fame e alla rovina. Noi vi odiamo e vi combattiamo. I nostri partigiani ci difenderanno e noi li aiuteremo in questa lotta per dare a voi la morte e per scacciare gli oppressori tedeschi.”

                           La Mondina

L’azione venne concordata con i partigiani delle Gap e Sap di pianura.

A Baricella il 12 giugno squadre fasciste andarono casa per casa armi in pugno a costringere le mondine ad andare in risaia, ma la lotta riprese ugualmente nei giorni successivi. Nel mentre gli operai della Ducati e della Mazzaferri scioperano in solidarietà alle mondine e imponenti manifestazioni di donne costrinsero i commisari prefettizzi di Galliera e Granarolo ad andarsene. Lo sciopero fu un successo!
Lo sciopero per le Mondine non era una novità infatti di scioperi nel passato già se ne erano visti molti nelle risaie fin dall’800 e molti avevano avuto successo, come nel ’27 quando il regime fascista voleva imporre una diminuzione del salario e in 10 mila parteciparono allo sciopero. La mobilitazione delle mondine spaventò il rgime  a tal punto che le riduzioni del salario vennero ridimensionate notevolmente. 
Renata Berti, mondina incarcerata due volte nel ’32 e nel’43 a Medicina per la sua attività antifascista, ci racconta invece lo sciopero del 1931 che si concluse dopo tre giorni con l’accettazione delle richieste salariali delle mondine.
La mattina dello sciopero le mietitrici invece di andare nei campi, presero le biciclette e andarono per la strada, allora a catena le mondine le seguirono.
Il secondo giorno dello sciopero passò un camion di fascisti che urlava alle mondine di tornare a lavorare, fra questi vi era uno che aveva un negozio in cui andavano molte donne, Renata e le altre convinsero con successo le donne a boicottare il negozio del fascista. 
“Se otto ore vi sembran poche provate voi a lavorare e sentirete la differenza di lavorar e di comandar.” 
I Gruppi di Difesa della Donna
Nel Novembre del 1943,  si costituiscono a Milano i Gruppi di Difesa della Donna, un’organizzazione trasversale a cui partecipano donne provenienti da diversi partiti, con estrazioni sociali e di classe diverse. I Gdd  si radicarono in molte città e divennero presto  un nodo fondamentale di connessione fra la resistenza civile nelle città e quella armata sulle montagne, coinvolgendo circa 70 mila donne. 
Nell’atto costitutivo, viene indicato il programma d’azione dell’organizzazione con queste parole:
«[…] in ogni momento, in ogni quartiere, in ogni fabbrica, ufficio, scuola, villaggio, si formano i gruppi e operano attivamente:
-diffondendo fra le donne la persuasione della lotta contro il traditore fascista o il tedesco
-organizzazione nelle fabbriche, negli uffici, nelle scuole e nei villaggi, la resistenza al tedesco, il sabotaggio della produzione, il rifiuto dei viveri e delle provvigioni, preparano le donne a combattere a fianco dei lavoratori tutti per la liberazione comune.
-isolano i traditori e i tedeschi, creano intorno a loro e nella loro famiglia un’atmosfera di odio e di disprezzo in attesa che li colpisca la giusta vendetta del popolo.
-raccolgono denaro, viveri, indumenti, per combattenti internati in Germania e prigionieri antifascisti
-faranno in modo che la cultura, attraverso il libro e la parola, rischiari la via della liberazione, riaffermi il desiderio della lotta e ne insegui i modi e le personalità, mostri come l’Italia liberata, potrà diventare davvero la madre degli italiani.»
I gruppi dunque oltre ad organizzare il supporto logistico ai partigiani, promuovevano manifestazioni e sabotaggi, così come a Bologna quando il 3 Marzo del 1945 un nutrito gruppo di donne invase la sede del comune e malmenò un ufficiale che non voleva cacciarle. poi le manifestanti percorsero via Ugo Bassi e si recarono al magazzino del sale per rivendicarne la distribuzione.
Le donne coinvolte nei gruppi di difesa pubblicano clandestinamente la rivista “Noi donne” e “la voce della donne”, sulle cui pagine oltre a diffondere le loro idee antifasciste e contro la guerra, emergono chiare le basi di rivendicazioni quali la parità salariale, il voto e in generale l’indipendenza delle donne.
Comandante Laila
Fra le animatrici dell’esperienza dei gruppi di difesa della donna, c’è Anita Malavasi, staffetta partigiana e poi comandanta di distaccamento nella 144ª Brigata Garibaldi “Antonio Gramsci”.
Nata da famiglia contadina socialista, trasferitasi nel 1938 a Reggio Emilia, dove incontrò e fece esperienza della cultura operaia. L’essere nata in un ambiente antifascista, la portò subito dopo l’armistizio a diventare partigiana. Inizialmente portava le armi da Reggio Emilia all’appennino, ma quando il suo lavoro di staffetta divenne troppo pericoloso, dovette entrare in clandestinità sulle montagne con il nome di Laila. Il nome Laila lo scelse da un romanzo, era una principessa Atzeca che alla morte dell’amato prese il suo posto in guerra per combattere contro l’invasore spagnolo.
Sulle montagne Laila non imparò solo ad usare le armi, ma prese coscienza della propria condizione di donna, scrive così:
“In montagna si dormiva insieme, per terra, nei boschi, uomini e donne, ma se uno mancava di rispetto veniva punito. L’amore non contava niente. L’importante per noi era aiutare. Io ero anche fidanzata, lo lasciai quando mi disse che fare la partigiana mi avrebbe reso indegna di crescere i suoi figli.”
E così fece, lasciò il fidanzato per restare a combattere sui monti, dove fu incaricata al comando di una formazione di circa una quarantina di staffette e combattenti, nell’ufficio informazioni della brigata a Vetto.
Alla fine della guerra fu nominata sergente maggiore.
Dopo la guerra entrò nel partito comunista e dedicò molti anni all’organizzazione dei gruppi di donne e al lavoro sindacale a sostegno delle lavoratrici. 
“Era un mondo maschilista. Soltanto tra i partigiani la donna aveva diritti, era un compagno di lotta. La Resistenza ci ha fatto capire che nella società potevamo occupare un posto diverso.”   
Laila
Il funerale delle sorelle Arduino
Vera e Libera Arduino sono due sorelle entrambe operaie impegnate nella lotta partigiana e appartenenti ai gruppi di difesa della donna torinesi. A causa della loro attività antifascista vennero trucidate nella notte fra il 12 e il 13 Marzo del 1945. In tutta la periferia di casa in casa, di donna in donna, venne passata parola di proclamare lo sciopero nelle fabbriche e di riunirsi tutte al funerale delle sorelle Arduino.
Il 16 Marzo giorno dei loro funerali centinaia di donne si presentarono al cimitero monumentale di Torino con dei segnali di riconoscimento di colore rosso, sciarpe, mazzi di garofani, maglioni rossi, ma anche cartelli che condannavano la violenza fascista. L’assembramento di donne richiamò presto un unità fascista che arrivò prima in borghese e poi in forze attaccando le donne e cercando di disperderle, una di loro cominciò ad insultare gli uomini in divisa e mentre le guardie cercavano di portarla via, le amiche la circondarono nascondendola e permettendole di scappare. 
Quando arrivarono i carri funebri che trasportavano le spoglie di Vera e Libera, una donna urlò, “inginocchiamoci!” e tutte le donne, intonando un canto di resistenza si inchinarono alle compagne cadute.

 

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