STREGHE DI IERI, STREGHE DI DOMANI (e tante domande sull’oggi)*

“Ha paura. La paura ha odore più forte degli aghi di pino sul sentiero della  foresta.
La terra fuma dopo la pioggia di primavera. Il suo cuore è più rumoroso dei muggiti dei pascoli comunali. L’anziana porta al braccio un cesto di erbe e di radici che ha da poco raccolto, vecchio come il tempo.
I suoi piedi sul sentiero sono gli stessi di sua madre, di sua nonna, delle sue antenate. Sono secoli che cammina tra le querce e i pini, a raccoglier erbe per poi farle seccare sotto la tettoia della capanna, costruita nelle terre ancora comuni. Dacché ha memoria la gente del villaggio la va a trovare per il dono che ha nelle mani, guaritrici, le stesse che posizionano al meglio il bambino nel ventre della madre all’ora della nascita, la sua stessa voce calma che allontana le sofferenze e culla l’insonne fino al riposo.”
(Il tempo dei roghi, pag.3)

La nascita della scienza moderna, della professione medica e la caccia alle streghe:
perchè rievocarle?

Per stimolare una discussione attuale sull’idea che abbiamo di tutela della salute da un lato e sulla nascita del sistema medico-scientifico patriarcale dall’altro, guardare alla storia del passato ci è sembrato un buon punto di partenza per tentare una lettura del presente. Non abbiamo la pretesa, nè saremmo in grado al momento, di restituire questa storia nella sua enorme complessità in questo testo, ma ci è sembrato utile avere in nota qualche breve riferimento storico da utilizzare come spunto di riflessione. L’intreccio tra la storia della repressione delle streghe, donne appartenenti alle classi sociali più povere, e la nascita della professione medica, della scienza moderna, del capitalismo spiegano in parte il perchè definiamo il sistema medico scientifico occidentale come patriarcale sin dalle sue origini. Da qui, una delle ragioni della sfiducia nei suoi confronti a cui cerchiamo di contrapporre una nostra visione e pratica di salute, sia individuale che collettivo.

La medicina come “professione” si affermava in Europa nel XIII secolo, come una scienza di estrazione universitaria, sviluppata dalle classi agiate per le classi agiate, avallata dal beneplacito della Chiesa e delle autorità ecclesiastiche. Alle donne provenienti dalle stesse classi urbane elevate fu deliberatamente precluso l’accesso alla professione medica ufficiale, così come dagli studi universitari, attraverso una vera e propria campagna di esclusione. Le donne che decidevano comunque di esercitare la pratica medica venivano accusate di pratiche illegali e processate. Al termine del XIV secolo, l’esercizio della medicina ufficiale si affermava definitivamente nelle città e nei ceti agiati come una professione esclusivamente maschile. Trattandosi di una scienza sviluppata a partire da basi del tutto teoriche, le pratiche utilizzate risultavano spesso non solo inefficaci, ma anche dannose e più simili a delle torture (si pensi a pratiche come il salasso o l’impiego delle sanguisughe).

Se tra le fila borghesi sorgeva a livello ufficiale la professione medica, una larga schiera di guaritrici e guaritori esisteva da sempre tra le classi contadine e più povere. L’impiego del metodo empirico e delle conoscenze erboristiche rendeva questi saperi molto più efficaci nella loro applicazione pratica. A essere etichettate         streghe nel periodo medioevale furono proprio (ed esclusivamente) le donne guaritrici delle classi contadine, detentrici di saperi di medicina popolare e ostetricia.

Poiché il numero di medici ufficiali non era certo sufficiente a coprire un’elevata domanda di assistenza sanitaria, è noto che nelle prime fasi ancora disorganizzate della nascita della professione medica, continuava a essere frequente il ricorso alle guaritrici non ufficiali anche tra le classi più agiate, sia per necessità, sia perché maggiormente economico e conveniente. Non è difficile immaginare, applicando le lenti del nostro presente, che si fosse creato allora una sorta di doppio binario, formato di medici ufficiali pagati a caro prezzo da un lato e da guaritrici clandestine sfruttate dall’altro.
Quello che va sotto il nome di caccia alle streghe è un vero e proprio genocidio, avvenuto in Europa, in un arco temporale molto lungo che va dal XIV al XVII secolo. È importante dire che di quella storia non è giunta sino a noi una narrazione diretta per stessa penna di chi l’ha subita, le streghe, ma, laddove non mistificata o ridotta a una questione di folklore dalla storia ufficiale, è stata restituita in parte da indagini e ricostruzioni storiche di impronta femminista. Nominare la caccia alle streghe come la storia di un vero e proprio genocidio è un atto di restituzione storica, che per la sua portata rivela quanto queste donne fossero scomode al potere in un periodo storico di transizione verso il capitalismo. Per comprendere perchè quello dell’eliminazione della magia e superstizione fu pretesto per un genocidio così atroce, ci aiuta il constestualizzarlo brevemente nella sua epoca.

La caccia alle streghe si inserisce infatti in un contesto storico ampio e complesso:
in Europa, con il fenomeno delle Enclosures, cioè l’espropriazione di massa delle terre ai contadini e la loro privatizzazione, si avviava un cambiamento epocale; parallelamente, oltreoceano, la conquista europea delle Americhe avveniva attraverso uno sterminio di massa, giustificato da credenze ideologiche e religiose che marchiavano i popoli originari come inumani e pericolosi. Nel XVI secolo, infatti, il momento culmine dei processi alle streghe, donne contadine, coincidono con il periodo delle rivolte contadine in Europa contro la privatizzazione ed espropriazione delle terre. Non ultimo, cominciava proprio nello stesso secolo a svilupparsi un nuovo interesse per il controllo della popolazione e della forza-lavoro e, quindi, della riproduzione: il suo controllo doveva diventare appannaggio di statisti ed economisti e il corpo della donna è posto al servizio della popolazione e della produzione. Fu nel XVII secolo che l’ostetricia e l’assistenza a parto e aborto, le cui pratiche e saperi fino ad allora erano detenuti in modo esclusivo dalle levatrici streghe, furono messe al bando, così che l’ostetricia divenne anch’essa una professione controllata e regolata dallo Stato, riservata ai maschi.

Certamente, la caccia alle streghe, fu anche un ottimo strumento per dividere i contadini nel momento in cui venivano loro sottratte le terre: la relazione con la terra durante il Medio Evo, e l’uso collettivo che ne veniva fatto, era infatti molto diverso da quello che sarebbe diventato con la recinzione dei terreni e l’incremento dello sfruttamento della natura finalizzato al profitto. In molti infatti, anche i più poveri, fino a quel momento vivevano dei prodotti della terra, dei piccoli appezzamenti comunali o di quanto poteva essere ricavato dai boschi e dalle foreste. Questo valeva soprattutto per le donne anziane, le vedove, che fino a questo periodo erano tutelate dal diritto consuetudinario, che garantiva loro acesso alla legna e alla sussistenza. Quando si incominciò a recintare le terre e ad espropriare le contadine e le donne anziane del loro accesso a queste risorse, si ebbero atti di insubordinazione e resistenza. In risposta a questo il clima di terrore che si impose nelle comunità contadine con l’insinuarsi della minaccia della stregoneria, agì da deterrente. Ad essere accusate di stregoneria non erano solo le donne in quanto tali, ma sopratutto le donne degli strati più bassi della società, che private dei propri mezzi di sussistenza, si ribellavano.

Bisogna dire che la caccia alle streghe fu pretesto per una repressione sistematizzata e feroce nei confronti di tutte quelle donne che in qualche modo deviavano dalla norma sociale loro imposta, perchè ribelli (si pensi agli episodi noti di rivolte contadine in Spagna guidati da donne), per la loro sessualità, perchè accusate di adulterio e perchè guaritrici e levatrici illegali. Allo stesso tempo, la scienza medica ufficiale e i suoi dottori uomini ebbero un ruolo determinante e attivo nell’oppressione delle streghe e nella contestuale espropriazione dei loro saperi. Lo stesso Paracelso (1527), considerato il padre della medicina moderna, ammise che tutto ciò che aveva appreso fu non dai trattati universitari, bensì dalle “fattucchiere”.

La mentalità che permise e fece da solida base ideologica alla riuscita, non solo del genocidio delle donne in quanto streghe, ma anche di una trasformazione radicale del mondo, è anche da rintracciare nei filosofi e negli scienziati che costituiscono la base teorica della scienza moderna. Fra questi ebbero un ruolo di prim’ordine Cartesio, Hobbes e Bacone, autori che ancora oggi vengono studiati e apprezzati per averci “liberato” dalla paura “irrazionale” della natura. Le teorie degli “illustrissimi scienziati” (!) dell’epoca fungono da fondamento scientifico-teorico per la campagna repressiva contro le streghe, puntando a screditare ogni sapere legato al corpo e alla salute che non corrispondesse a quello validato dal sistema ufficiale.
Il razionalismo scientifico è stato un veicolo di “progresso” che ci ha portato a quello che è il mondo di oggi, un mondo in cui viviamo alienate dalla natura, in cui il mondo naturale e animale sono concepiti solo secondo una visione utilitaristica e strumentale, un mondo in cui gli eventi naturali sono fenomeni da dominare e controllare. Abbiamo perso la capacità dialogica di riferirci all’ambiente e al mondo vivente come a una parte di noi stesse e, viceversa, di riconoscerci come parte dell’ambiente.
Fra queste teorie alla base della scienza moderna, possiamo prendere ad esempio il meccanicismo, che in sintesi “è una descrizione del cosmo, della società e degli esseri umani intesi come insiemi di parti distinte e separabili, controllabili dall’esterno perché rispondenti a un sistema di leggi di tipo logico-matematico. Questo modello esclude tutto ciò che si presenta incerto e imprevedibile quindi non manipolabile; mette in luce solo le caratteristiche quantitative, semplificabili, della realtà”
(Anna de Nardis https://www.dmi.unipg.it/mamone/sci-dem/nuocontri_3/adenardis.html).
Ciò che non è prevedibile, classificabile o intelleggibile è anche meno facilmente controllabile: l’energia caotica dell’esistente ha sempre spaventato chi detiente il potere. Per il fatto di non rientrare entro propri schemi di razionalità e conoscenza, la medicina delle streghe veniva definita magia o superstizione, nonostante fosse frutto di una scienza empirica ricca di saperi e pratiche efficaci.
La trasgressione delle norme morali, sociali e culturali di ogni epoca storica, in qualsiasi forma avvenga, è un’arma che abbiamo contro la violenza stigmatizzante del pensiero unico imposta dal potere, che divide e separa. Interrogarsi sulla trasgressione e sul limite, su che cosa siamo disposte a cedere, a perdere o a difendere fino alla fine, anche a costo di essere nuovamente escluse ed emarginate, significa interrogarsi ancora una volta sulle nostre identità. Le streghe in questo senso rappresentano per noi la possibilità di riconoscerci dentro a un processo storico che può essere utile per comprendere che anche ai giorni nostri si possono facilmente ritrovare le tracce di violenze già subite. Affondando in profondità e scavando, si può vedere come da sempre i vari dispositivi di potere hanno agito per conformarci a un’idea su chi siamo e su chi dovremmo essere.
Il pensiero scientifico si è tradotto in un progetto di dominio che, avvalendosi dell’apporto dello sviluppo tecnologico, è riuscito ad allontanare l’essere umana dalla possibilità di accedere a una conoscenza altra su se stessa e sul mondo. Bacone, uno dei padri del metodo scientifico, arriva a descrivere la natura come una donna da conquistare, scoprire, violentare. Possiamo vedere nella caccia alle streghe la connessione della “distruzione dell’ambiente e lo sfruttamento capitalistico del mondo naturale con lo sfruttamento delle donne” (Calibano e la Strega pag. 265). L’allontanamento dal mondo naturale è andato di pari passo a una sordità e a un’incapacità di ascoltare i messaggi del nostro corpo e dei corpi altrui, silenziando e reprimendo non solo gli istinti ma anche le possibilità di pensare ad altre forme di intendere la malattia, la cura, la guarigione, la salute.
La stagione della caccia alla streghe si è data in un periodo storico che ha posto le fondamenta della società capitalista, rafforzando al contempo idee classiste e misogine, con le quali dobbiamo convivere ancora oggi.
Nelle epoche successive e nel mondo sempre più globalizzato, l’interesse capitalista per il controllo della popolazione e della riproduzione si è fatto sempre più centrale e, con esso, il livello di invasività sui corpi delle donne e sul controllo di riproduzione e aborto.

Con la strumentalizzazione di questa pandemia globale, il livello di invadenza medico-scientifica e tecnologica dell’epoca attuale, già ormai avanzato e globalizzato, è stato esasperato fino ad arrivare a un punto di non ritorno. Ripercorrere a ritroso questa storia ci sembra un utile strumento per capire come autodifenderci e frenare questa corsa alla trasformazione del potere per il dominio totalizzante dei nostri corpi.
Cos’è la salute secondo il sistema capitalista

Vogliamo risignificare il concetto di salute perché quello che ci è stato imposto dal sistema medico-scientifico patriarcale e capitalista non ci appartiene. Abbiamo provato a riassumere le caratteristiche dei concetti imposti di salute e malattia attraverso le nostre esperienze e conoscenze per poi concentrarci sui significati che vogliamo dar loro in un’ottica transfemminista e non positivista.

Il sistema medico-scientifico ci insegna che salute vuol dire guarire il più rapidamente possibile un sintomo o nascondere un dolore (fisico, mentale, emozionale) per tornare a essere produttivx per la società: siamo delle macchine che devono funzionare ad ogni costo. La medicina settorializza il corpo, e cioè vi si approccia come ad un insieme di pezzi scollegati che, se malfunzionanti, doloranti o rotti, vanno aggiustati, eliminati o sostituiti. La causa del malfunzionamento non viene indagata, per cui una stessa sintomatologia che può avere cause diverse viene trattata alla stessa maniera rendendo spesso il trattamento inefficace.
L’ambiente circostante e le condizioni di vita delle persone non vengono prese in considerazione come cause o concause delle malattie: il corpo viene estratto dal contesto ambientale e sociale in cui vive. Se hai una malattia, la colpa è tua e del tuo corpo. Le lotte ambientali, dall’Ilva alla Terra dei Fuochi, ci insegnano che se il territorio in cui viviamo è inquinato e devastato anche i nostri corpi ne subiranno le conseguenze. Ovviamente, i corpi delle donne e delle persone assegnate femmine alla nascita sono particolarmente colpiti dall’approccio patriarcale della medicina: troppo spesso tutte quelle patologie legate all’apparato riproduttivo di questi corpi non vengono riconosciute e diagnosticate, se non con anni e anni di lotte, ricerche e rimbalzi tra un medico e l’altro.
In generale, la cura del corpo è delegata e affidata a esperti esterni da cui dipendiamo, o crediamo di dipendere, perché non conosciamo com’è fatto il nostro corpo e come curare le malattie che lo colpiscono.

La gestione della pandemia ci fa vedere anche come le misure che sono state adottate (mascherine, distanziamento, lockdown) sono puramente contenitive ed emergenziali, mentre tutto ciò che riguarda la prevenzione e la cura non vengono approfondite nel dibattito pubblico. I telegiornali puntano a terrorizzare le persone con le immagini del disastro sanitario, ma nessuna comunicazione viene fatta su come curarci se veniamo colpitx dal virus, su come prevenirlo rinforzando il proprio sistema immunitario o su come provare a condurre degli stili di vita sani – perché uno stile di vita sano non può esistere in una società capitalista, e il gioco non può svelare le sue regole.

Cosa sono salute e malattia per noi

Per noi salute non ha che vedere solamente con il benessere o malessere del nostro corpo, riguarda anche come questo corpo lo percepiamo o ce lo fanno percepire. La salute riguarda anche come sta la nostra mente, l’armonia dei nostri sentire con tutte le differenti parti di noi stesse, che reputiamo essere interconnesse.
Non crediamo nel binarismo mente-corpo ma ci consideriamo un insieme complesso formato da corpo, mente, emozioni, energia, relazioni e ambiente che ci circonda e la salute riguarda ognuna di queste cose. Intendiamo la salute in una prospettiva ecologica, e cioè di equilibrio tra noi e il resto del mondo vivente. A condizionarla, sono quindi anche i nostri rapporti sociali, il contesto in cui viviamo, l’aria che respiriamo, il cibo che mangiamo, il benessere o malessere dell’ambiente che ci avvolge e che comunica con noi. Allo stesso tempo, salute investe anche le sfere relazionale e affettiva, perché siamo esseri interdipendenti e il nostro benessere dipende anche dalle relazioni che abbiamo e dalle reti affettive che ci circondano, ed è solo attraverso queste reti che ci creiamo che possiamo prenderci cura l’un dell’altrx.
Mettere al centro un’idea diversa di intendere le relazioni, il corpo, l’identità è mettere al centro una diversa idea di salute.

La malattia è quindi un sintomo di un disequilibrio in noi stessx e/o nel mondo, che si rispecchia in noi. Intendiamo la malattia come un indizio da indagare e non un sintomo da silenziare. Crediamo che indagare le cause della malattia e andare ad agire in profondità siano l’unica guarigione possibile.  Indagare le cause significa riappropriarsi di una visione olistica, in cui il bisogno di cura trascende la sola persona ammalata e coinvolge tutto il sistema nel suo insieme.

Cosa intendiamo per autogestione e cura

Crediamo che la gestione della propria salute non sia un problema che vada risolto individualmente. Nella visione dello Stato, tutta la responsabilità della pandemia cade sul singolx fomentando la divisione sociale, amplificando la percezione di solitudine, creando un discorso moralizzante. Così come nelle prime fasi della pandemia forte era il discorso del “siamo tutti sulla stessa barca” – e allora sapevamo bene come questa immagine fosse del tutto falsa – ancora oggi ci viene chiesto di reponsabilizzarci solo sulla base di quelli che sono gli interessi di alcuni (Stato, Confindustria, Case Farmaceutiche etc.). Le conseguenze di queste politiche sono la frammentazione sociale e la lotta tra poveri e la difficoltà di individuare i veri responsabili della pandemia.
Crediamo anche che la gestione della propria salute non si esaurisca nella scelta di adempiere o meno a determinate norme di comportamento dettate dallo Stato. Non ci sono delle norme che valgono sempre. Dopo quasi due anni di pandemia è evidente che adempiere alle norme dettate dallo Stato non basta e a volte è addirittura controproducente, così come non seguire le norme imposte non vuol dire remare contro la salute collettiva.
Autogestione vuol dire ragionare insieme per creare strumenti di cura e tutela basati sul consenso e sulla nostra concezione di salute, in base alle nostre esperienze pratiche e alle nostre condizioni specifiche.
Ci siamo chieste e continuamo a chiederci, come possiamo continuare a condividere spazi di vita e di lotta, col massimo della cura? Sicuramente, non riteniamo valida la gerarchia di priorità che durante questa pandemia è stata imposta: per esempio, il lavoro e la famiglia biologica sono state tutelate e agevolate, a scapito di tutte le altre forme di relazioni, condivisione e attività che riteniamo vitali, tra cui anche l’incontrarsi per continuare a lottare.

Vogliamo mettere in discussione il pericoloso binomio salute-libertà formulato nella gestioene neoliberista di questa pandemia. Le misure come il green pass e l’ormai evidente obbligo vaccinale sono state presentate dagli Stati come il necessario compromesso della libertà dell’individuo in nome della salute della Nazione. Questa concezione limitante nega la possibilità di autodeterminarsi e di dare altri significati alla salute e alla libertà. Su queste basi è stata portata avanti una campagna mediatica e politica contro le persone non vaccinate, creando la categoria sociale dei “no-vax” e utilizzandola come un capro espiatorio da un lato per l’imposizione di ulteriori dispositivi di controllo e dall’altro per scaricare le responsabilità della gestione della pandemia.
L’obbiettivo dello Stato e della scienza di rappresentare i “no-vax” come pericolosi, egoisti, ignoranti che mettono a rischio la salute collettiva e che vanno assolutamente convinti a vaccinarsi, è quello di non dare spazio all’autodeterminazione. Non è contemplato come legittimo il decidere autonomo e consapevole di prendersi cura del proprio corpo in modo diverso da quello “proposto” dalla scienza positivista.
Noi crediamo che anche in questa situazione salute e libertà non siano in contrasto ma anzi vadano insieme. Il fatto che ogni soggettività sia libera di autodeterminarsi sul proprio corpo è parte fondamentale della salute propria e quindi collettiva.
A non avere niente a che fare con la cura della salute sono invece le nuove misure di contenimento dei contagi. L’introduzione del Super GreenPass ci rivela ancora una volta la natura economica e non sanitaria di questo dispositivo. Si è dato libero sfogo ai consumi per le feste, lasciando correre i contagi, che tanto la colpa rimane dei non vaccinati e intanto le tasche del capitale si rimpinzano.

Non vogliamo aderire all’idea di vita che ci impone lo stato perché abbiamo un’altra idea (almeno una a testa) di cosa sia la vita.
La retorica di una guerra da vincere contro il virus sembra essere tutta giocata dagli stati e dai suoi scienziati in termini di numeri di vite salvate: questione di vita o di morte. Questa visione non solo è criticabile, perché il salvare la vita biologica a ogni costo non ci interessa se questa vita non è libera di essere vissuta, ma anche ipocrita. Noi e il mondo attorno a noi moriamo ogni giorno che i potenti del capitalismo sfruttano e devastano le nostre vite e l’ambiente. Il virus così come tantissime altre malattie sono frutto del pensiero dell’onnipotenza dell’essere umano che si considera superiore e slegato dalla natura e di fatto la sfrutta e la distrugge. Per questo, se da un lato è importante costruire insieme strumenti e conoscenze per autogestire la cura e la salute, dall’altro è altrettanto necessario attaccare chi la salute ce la toglie, e cioè un sistema che individuiamo come la vera causa del nostro malessere.
La “salvezza” che ci impongono lo Stato, il capitalismo e la scienza positivista non ci interessa, anzi è esattamente ciò contro cui continueremo a lottare, perché vivere la propria vita è molto meglio che sopravvivere.

*Il contenuto di questo testo è la restituzione della seconda puntata di discussione tra compagnx donne, lesbiche e trans* su salute, pandemia e green pass.

BIBLIOGRAFIA UTILE ALLA PRIMA PARTE DEL TESTO
– Calibano e la strega, di Silvia Federici, 2015
– Le streghe siamo noi, di Barbara Ehrenreich – Deirdre English, traduzione italiana 1975
– Donne al rogo. La caccia alle streghe in Europa, le enclosures, la nascita del – capitalismo, dicembre 2020, disponibile su anarcoqueer.wordpress.com
– Il tempo dei roghi, ?
– articolo di Anna De Nardis https://lnx.ilclic.it/wp/2020/08/19/il-tragico-trionfo-del-meccanicismo-dalla-rivoluzione-industriale-al-covid-19-1a-parte/

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Protesta e Battiture nel carcere di Santa Maria Capua Vetere


Il 1 gennaio nel reparto Senna del carcere di Santa Maria Capua Vetere le donne detenute, circa 50, hanno protestato dopo l’ennesimo maltrattamento di una di loro da parte del medico di turno. C’è stata una battitura e sono stati bruciati alcuni asciugamani.
Della notizia non ha parlato quasi nessuno, se non un paio di articoli che concludono invocando più sicurezza per la polizia penitenziaria, che sarebbe oggetto di continue violenze da parte delle persone detenute. Gli stessi secondini noti per la mattanza dell’Aprile 2020 e di cui un centinaio sono ora sospesi e sotto processo, insieme a diversi funzionari del DAP. La stessa penitenziaria che ogni giorno maltratta, abusa e uccide in questa e in tutte le altre carceri italiane.
Mentre i sindacati di polizia penitenziaria piangono miseria e i vertici del ministero di giustizia fanno di Santa Maria Capua Vetere un caso esemplare per ripulirsi la faccia della strage di Stato avvenuta a Marzo 2020 nelle prigioni italiane, ricominciano a scoppiare focolai in diversi reparti dappertutto. In Campania, sia a Poggioreale che a SMCV sono diverse decine le persone detenute positive. Ma i contagi all’interno non fanno più notizia. Dopo l’iniziale clamore della campagna vaccinale, è evidente che la situazione strutturale di malasanità e sovraffollamento non è mai cambiata.
Ieri un piccolo gruppo di solidali è andato sotto le mura della prigione per portare un grido di solidarietà alla lotta delle detenute di SMCV. Dopo i primi cori, la risposta da dentro è stata immediata, con battiture e urla – “Libertà, hurryia, indulto”. Il saluto è durato poco, ma il messaggio di rabbia e resistenza da dentro è stato forte e chiaro. Torneremo, non mollate.

Tuttx Liberx

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Aggiornamenti dal confine fra Polonia e Biellorussia_Nessuna Frontiera

Nell’agosto 2020, Lukashenko è stato rieletto tra le proteste della popolazione. Molte persone dissidenti sono state arrestate*. La Russia ha dato manforte al regime di Lukashenko e alle richieste del leader, che è stato formalmente sanzionato dall’Unione Europea con delle sanzioni economiche. Da un lato ci sono Lukashenko e Putin, e dall’altro un’Unione Europea che sta cambiando vertici. A questo si aggiunge una situazione economica in cui c’è in ballo un nuovo gasdotto che dovrebbe portare il gas dalla Russia in Europa*, un fattore che sbilancia i rapporti tra UE e Russia.
In questo gioco di forze, Lukashenko si sta servendo delle persone migranti per esercitare una pressione sull’Europa. Per questo ha aperto dei voli charter e di linea per chi vuole partire verso l’Europa con visti turistici di pochi giorni, provenendo dal Medio Oriente e dall’Africa Subsahariana. I voli sono diretti o con scali, soprattutto in Turchia ed ex Unione Sovietica. Chi arriva non può tornare indietro, per via degli scali. Una volta arrivatx in Bielorussia, le persone vengono inviate al confine con la Polonia.
Al momento al confine non ci sono organizzazioni internazionali, è vietato avvicinarsi al confine per qualsiasi individuo, media e ONG. Nel momento in cui la gente ha cominciato ad arrivare al confine la Polonia ha chiuso tutto e militarizzato la frontiera. In questo momento sono schierati oltre 20.000 militari. Gli eserciti polacco e bielorusso gestiscono tutto. Il confine è molto lungo e i militari sono concentrati in una zona in particolare di un centinaio di km. La frontiera è un bosco, attraversato da sempre.
La rotta che si è aperta ora è nuova, prima c’erano persone che si muovevano da est a ovest, ora invece le persone arrivano da sud in Bielorussia e da li proseguono verso ovest. Questa rotta è stata creata ad arte per fare pressione sull’Unione Europea. Anche se la rotta viene chiusa perché vengono annullati i visti, la voce di quel canale per passare si diffonde, e le persone continuano ad arrivare.

Di seguito, pubblichiamo uno scritto tradotto ricevuto da alcun* compagn* attiv* sul confine fra Polonia e Biellorussia.

No borders no nations – EMDT

 

Carx amichx,
vi portiamo qui un po’ della storia del territorio attualmente chiamato Polonia.

1. Architettura di una follia

L’autunno polacco è freddo. A metà novembre la prima neve ha coperto la foresta. Ma ora è già inverno.
Se a Settembre passare attraverso fiumi e paludi vicino alla frontiera era pericoloso, ora rendono il tempo davvero poco.
Quando le persone arrivano alla frontiera Bielorussa, sono “orchestrate” da autorità ed esercito. Le minacciano, sparando loro accanto ad esempio, e con la violenza (botte, furti), sono obbligate ad attraversare la rete nel punto loro indicato. A seconda della fortuna, ci potrebbe essere una parte di foresta, campi esposti, fiumi o paludi.
È importante, in quanto unica possibilità, arrivare dall’altro lato.
Se riescono, hanno una possibilità di uscire da questa trappola, sebbene non sia una certezza.
Si devono muovere nel buio, nascostx tra gli alberi. Seguire le strade non è un opzione possibile, in quanto ovviamente, battute dai militari.
In quest’area si trova la tipica foresta europea, la natura selvaggia e densa rende difficile il passaggio.
Chi viene intercettatx dalle forze polacche, viene immediatamente ricacciatx nel lato bielorusso. Anche se ovviamente contrario ai diritti umani e dei rifugiati, questo modo di agire è stato legalizzato dalla normativa polacca, creata appositamente negli ultimi mesi.
Quando le incontriamo, a volte sono in viaggio da una settimana, a volte da un mese e quasi sempre sono statx già respintx più volte. Spesso la loro salute è già molto compromessa, sono scarichx e senza speranza. Ciò nonostante, persistono in questa situazione drammatica.
Noi scherziamo tristemente sul fatto che in un gruppo su due che andiamo ad aiutare c’è qualcunx col diabete. Questo mostra che molti di coloro che decidono di migrare lo fanno per ragioni di salute. Il che rende più difficile per loro adattarsi a situazioni inaspettate.
Molte delle persone che abbiamo incontrato, per raccogliere i soldi per arrivare in Europa hanno fatto grandi sacrifici. Alcuni hanno dovuto vendere gli organi per pagare questo viaggio. Un rene in cambio della possibilità di venire in Europa. Quando queste persone finalmente raggiungono i confini dell’EU, trovano botte, cani, gas lacrimogeni e idranti.
In Polonia più di 20.000 agenti sono stati mobilitati nella zona di confine, contando polizia, soldati e unità di difesa del territorio. Fanno della frontiera una vetrina propagandistica delle loro capacità mostrando la polizia a cavallo e l’uso di droni militari per andare alla ricerca di persone affamate nella palude. Non per portare loro del cibo, contrariamente a quanto dicono a volte.
In questa situazione anche alcunx agenti dello stato crollano e non sopportano l’orrore di rigettare bambinx piccolx oltre il confine, in Bielorussia.
Nonostante il fatto che moltx migranti abbiano perso delle persone amate, subìto torture e stupri, siano statx forzatx a vendere gli organi, non si lasciano scalfire dall’esercito bielorusso e ancora hanno la forza di combattere per la propria dignità.
Queste persone hanno più forza di tutti gli eserciti del mondo, e con loro noi ci opporremo a questo sistema e a tutti i giochi di potere della politica.

2. Un pò di storia, come è cominciato tutto

Data la situazione tesa tra l’UE e la Bielorussia, pochi mesi fa Łukashenko, dittatore bielorusso ha deciso di fare pressione sull’UE inviando migranti oltre il confine. Ha creato artificialmente una massiccia rotta migratoria, attirando in Bielorussia persone interessate, principalmente dal Medio Oriente e talvolta dall’Africa, spesso attraverso la Turchia. Ha cambiato le politiche dei visti per facilitare il viaggio,il numero dei voli è aumentato molto.

Prima i paesi Baltici, poi la Polonia, si sono impegnate nella costruzione di un muro di confine. Gli agenti di Frontex non sono direttamente autorizzati ad agire nel territorio Polacco, ma sappiamo che Frontex collabora con lo stato polacco in questa situazione.

Le persone che cercano una vita migliore devono pagare molto per affrontare il viaggio, viene detto loro che l’arrivo alla destinazione prestabilita (di solito i paesi occidentali Europei, come la Germania) è garantita. Dal momento in cui sono “presi in carico” dalle forze bielorusse, non hanno molte possibilità di scelta. Vengono trasportati al confine polacco (o lituano) e forzati ad attraversarlo. Spesso in quel momento scoprono che c’è qualcosa che non va e che il viaggio non sarà semplice. Sono costantemente sottoposti a informazioni false.

Il 2 settembre la Polonia ha dichiarato lo stato di emergenza in tutti i comuni di frontiera, costituendo una zona interdetta di circa 3 kilometri di profondità dalla frontiera. A parte i militari e la polizia, solo la gente del posto è autorizzata a muoversi lì. I giornalisti non sono ammessi, le ambulanze nemmeno. Dall’inizio di dicembre, poiché non era legale prolungare ulteriormente lo stato di emergenza, il governo polacco ha approvato un nuovo regolamento che mantiene le stesse restrizioni con un nome diverso.

Ora, teoricamente la stampa è autorizzata, ma solo con un permesso speciale, sotto una stretta osservazione e controllo delle autorità. Il divieto dei giornalisti rende più difficile documentare il dramma. Non sappiamo quante persone sono morte, i viaggiatori parlano spesso di corpi che hanno visto. Forse non sapremo mai la verità, perché i corpi spariranno diventando parte della natura, dopo che la neve si sarà sciolta in primavera.

A Novembre i voli si sono fermati, quindi ci sono meno persone che arrivano. Ma ci sono ancora persone nella foresta. Alcune stanno ancora arrivando, in qualche modo.

3. Risposte

L’organizzazione dal basso No Borders Team, che riunisce attivistx anarchicx da tutto il territorio polacco, collabora con tutti gli altri gruppi che forniscono aiuti umanitari.

Alcunx di noi conoscono già il problema delle migrazioni da altre rotte, o da precedenti ondate di migrazioni arrivate in Polonia. Lx rifugiatx non sono mai statx benvenutx dal governo polacco. Alcunx di noi sono attivistx da molto tempo, ma in diverse aree di azione. Ci sono alcune ONG che si riuniscono in Granica Group. C’è un enorme lavoro portato avanti dallx abitanti della zona interdetta. Alcunx all’inizio credevano nella narrazione del governo per cui lx migrantx sono pericolosx, che sono terroristx o zoofilx. Ma quando hanno visto famiglie affamate e infreddolite, non hanno potuto fermare i loro cuori e hanno deciso di portare zuppa, te caldo, vestiti asciutti a quelle persone. Alcunx hanno aperto le loro porte, invitato ile migranti a scaldarsi prima di continuare il viaggio.

In molte città le persone hanno raccolto il materiale necessario al confine, moltx partecipano all’organizzazione [delle staffette], nello smistare le cose e trasportarle verso Est.

Le persone dopo molti giorni nella foresta hanno bisogno di acqua, cibo, vestiti asciutti, materassini, sacchi a pelo. Spesso, e soprattutto sul versante bielorusso, ma non solo, le autorità rompono o rubano loro telefoni, schede SIM, in modo che non possano contattare nessunx. Le power-bank cariche sono di solito nella lista delle prime necessità. Si lotta contro il freddo, soprattutto di notte. Non possono fare grandi fuochi, per non attirare l’attenzione dei militari.
Anche noi dobbiamo essere invisibili.
Hanno anche bisogno di contatto con altri esseri umani che non abuseranno di loro. Spesso, quando andiamo ad aiutare, sono preoccupati che qualcuno possa chiamare le guardie di confine, che significa espulsione immediata.

A volte una zuppa calda e un paio di scarpe significa vita.

Per coloro che sono troppo malatx o troppo deboli per seguire il loro percorso, c’è un’ambulanza autogestita in servizio. Che però non può entrare nella Zona interdetta, quindi in quei casi solo i residenti locali possono far uscire i feriti dalla Zona, in modo che l’ambulanza possa arrivare. Perché non l’ambulanza statale? È successo in alcune occasioni che prima dell’ambulanza statale arrivassero le guardie di frontiera e invece dell’ospedale, quelle persone fossero ributtate nei boschi.
Con la nostra ambulanza amica, almeno siamo sicurx che arriveranno all’ospedale, per quanto tempo, non lo sappiamo.

A volte le persone sono troppo stanche per provare a continuare il viaggio verso ovest e decidono di chiedere asilo in Polonia. Ufficialmente loro dovrebbero stare qui almeno mentre la procedura è in corso. Ma nella maggior parte dei casi, le loro domande finiscono nel cestino. Le Guardie di Confine vengono e a volte anche contro il parere dei medici, portano le persone oltre il confine, in Bielorussia.

Molte persone fanno l’impossibile per aiutare. I medici alla frontiera (Medycy na granicy) verrebbero oltre i loro regolari turni di lavoro, per fare il servizio alla frontiera e poi, tornare al loro lavoro. Lx attivistx rischiano la loro salute e sicurezza, si espongono al sistema. Un immenso sforzo organizzativo tiene tutto insieme.
Attivistx, medici e migranti, non solo affrontano il controllo dei militari e della polizia, l’abbassarsi delle temperature, le tecnologie ostili, ma anche la minaccia dei fascisti, che agiscono sotto la propaganda dei governi. I medici hanno trovato la loro ambulanza con le gomme sgonfie e pochi giorni dopo cinque auto private sono state distrutte a colpi d’ascia. I fascisti fanno anche delle ronde e derubano e picchiano ile migranti che trovano. Le Forze di Difesa del Territorio sono responsabili di almeno due attacchi ad attivistx. Questi sono però casi marginali. Spiacevoli, ma minuscoli, in confronto all’incredibile forza delle persone che resistono a governi ostili, resistono a regole di frontiera ingiuste e disumane, all’oppressione statale, alla geopolitica coloniale, alla manipolazione, alla distorsione, all’odio.

La solidarietà e l’organizzazione dal basso sono la prova che non tutta la speranza è perduta, e che possiamo e che rispondiamo, con i valori umani e azioni umane contro tutta l’insanità e i crimini della politica.

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CRITICA FEMMINISTA ALLA MEDICINA E SCIENZA POSITIVISTA IN TEMPI DI PANDEMIA

                                   
CRITICA FEMMINISTA ALLA MEDICINA E SCIENZA POSITIVISTA IN TEMPI DI PANDEMIA
        
A partire da una discussione sull’imposizione del green pass tra compagn* antiautoritari* donne, lesbiche, persone non binarie, siamo giunte inevitabilmente ad affrontare il rapporto tra i nostri corpi e la scienza positivista, di cui la medicina è uno dei principali prodotti, ritornato sempre più invasivo durante la gestione statale della pandemia. Il metodo che abbiamo seguito è quello di un confronto che incroci le proprie esperienze personali con le tensioni individuali che ciascunx mette nell immaginare un mondo diverso, nel quale corpi e soggettività non conformi possano convivere in relazioni di cura reciproca. Un incrocio che nella società in cui viviamo, anche a partire dal riconoscimento delle nostre situazioni di privilegio di cui finiamo per avvantaggiarci, riconosciamo spesso lastricato di contraddizioni: pur consapevoli di ciò, oggi ancor di più, di fronte alle misure emergenziali della pandemia, sentiamo l’urgenza di posizionarci a partire da una critica radicale alla scienza positivista e alla medicina. 
        
L’auspicio è che il ravvivare discussioni su questi temi, in queste nubi di rassegnazione e sperdutezza che circondano questi tempi, riaccenda la lotta avendo più chiari nemici e alleat*.
        
Il ponte dal green pass alla medicina
        
È oramai chiaro che il green pass è il nuovo strumento di controllo e ricatto che segna una linea netta tra integrati ed esclusi dalla vita economica e sociale ufficiale. Infatti, è da subito risultata chiara a tuttx la natura economica di questo ricatto con riferimento all’obbligatorietà del green pass sul posto di lavoro: se non ce l’hai non puoi lavorare; se opti per i tamponi perché non ti vuoi vaccinare, una parte del tuo stipendio è spesa in quello. Questo significa prendere la gente per fame. Ma di questo ricatto, come non bastasse, non è tralasciabile nemmeno la natura sociale di più ampia portata, con riferimento alla fruibilità dei mezzi di spostamento per le lunghe percorrenze e agli spazi della socialità. Proprio rispetto a questi ultimi, è amaro realizzare che tra i primi ad adattarsi all’obbligo di richiedere il green pass all’ingresso, spesso senza troppo questionarne pubblicamente le implicazioni, siano stati spazi di movimento che si proclamano antiautoritari o libertari. 
        
Nel corso delle diverse discussioni sin qui avute tra noi, abbiamo tentato di scindere le considerazioni sul green pass, come strumento di controllo statale e pressione sociale che scarica ogni responsabilità sux singolx individux, da quelle sul vaccino, prodotto di medicina e tecnologia la cui assunzione o meno è in linea teorica demandata alla libera scelta individuale. Tuttavia, se siamo giunt* inevitabilmente a discutere del nostro posizionamento, da femministe, rispetto alla scienza medica, ciò è dovuto al legame imprescindibile voluto e creato dallo Stato tra green pass come chiave d’accesso alla società e vaccinazione e alla contestuale propaganda di fede nella scienza legata a questi ultimi. Questa situazione ci appare perfettamente coerente con un sistema capitalista che è causa del virus e produttore del suo rimedio: si esime da ogni responsabilità su questa pandemia e sugli effetti della vaccinazione sperimentale di massa, riversandola in toto su quei singolx individux che scelgono di autodeterminarsi nella scelta di (non) vaccinarsi. 
        
Abbiamo deciso di non entrare, anche per mancanza di competenze sul tema, nel merito di questioni specifiche sulle tecnologie sperimentali di questi nuovi prodotti della scienza o sulle loro possibili conseguenze. Pur consapevoli, tuttavia, che esiste ed è comunque centrale il tema degli effetti che certe sperimentazioni o applicazioni scientifiche possono produrre sui corpi che le subiscono e sull’ambiente circostante e di come tali strumenti potrebbero essere riutilizzati per fini diversi da quelli attuali.  
        
Durante la discussione sono poi emersi diversi interrogativi. Anche se alcuni sono rimasti in sospeso e altri non hanno ricevuto una risposta univoca che possiamo sintetizzare qui, pensiamo possa essere comunque utile riportarli per restituire una complessità del presente che pensiamo esista. Abbiamo voluto riconoscerla e mantenerla, contrariamente a chi, avallando il gioco dello Stato oppure per bieca ideologia, ci sembra ridurre questa complessità a una semplicistica alternativa binaria: “pro-vax” contro “no-vax”. Possiamo in certe circostanze intendere quella di autodeterminarci sulla scelta vaccinale o sulle cure mediche come una possibilità connessa a un privilegio abilista o di classe, cioè legato al proprio stato di salute o alle concrete possibilità di accesso a strutture sanitarie o della qualità delle cure su un dato territorio o della possibilità di accedere a cure e stili di vita alternativi? Quali pratiche femministe è possibile recuperare per affrontare la pandemia e quali per una lotta contro gli strumenti del potere? Chi paga il prezzo delle sperimentazioni di medicina e tecnologia su animali e persone? Una critica radicale alla scienza positivista e alla medicina può esserci preclusa per il solo fatto di averne usufruito e tratto talvolta beneficio o sollievo nella nostra vita? 
        
Quelli che riportiamo di seguito non sono che alcuni spunti di ragionamento sparsi, da dentro e su una realtà estremamente intricata nella quale ci muoviamo, a partire da una prospettiva antipatriarcale e non binaria. 
        
Medicina patriarcale e corpi ribelli
        
La  storia della nostra sfiducia al sistema medico-scientifico comincia con la nascita stessa della medicina e della scienza positivista, poichè è tra le classi privilegiate e nel patriarcato che affonda le sue origini: per ciò non può che esser nemica di chi è oppress*. Dalla caccia alle streghe alle origini del potere ginecologico sui corpi delle donne per il controllo della sessualità e della riproduzione, il monopolio medico occidentale con cui ancora oggi ci troviamo a fare i conti è anche il risultato della depredazione della conoscenza dei propri corpi e del furto dei saperi di cura delle donne, in particolare provenienti dalle classi più povere. Il controllo e la gestione dei corpi è sempre stata una prerogativa per la preservazione del potere egemonico, prima dalla chiesa, poi dalla borghesia capitalista, poi dagli Stati e poi dai potenti del mercato globalizzato: dalla matrice religiosa a quella medico-scientifica (spesso rivali e talvolta alleati) un tratto comune di questa prerogativa è senz’altro il potere patriarcale. Sempre di più nel mondo globalizzato, il controllo della popolazione diventa un presupposto imprescindibile per il capitalismo: la mobilità mondiale è controllata dal sistema frontiere, così come la riproduzione attraverso campagne e sperimentazioni di massa che passano dal sistema medico. Ieri come oggi, un’attribuzione conformata e binaria dei ruoli di genere continua a essere funzionale al controllo capitalistico della  popolazione in rapporto alle risorse.
        
Infatti, la necessità del capitalismo di instaurare un proprio sistema di  controllo dei corpi attraverso la scienza e la medicina è un’altra faccia della medaglia di quell’oppressione patriarcale che vorrebbe far rientrare nel binarismo corpi, identità, soggettività, sessualità non conformi: corpo sano/corpo malato così come uomo/donna madre. Ci viene quasi automatico infatti il parallelismo nei rapporti tra autorità medica e paziente e tra patriarcato e soggettività non conformi: al centro del parallelismo c’è il nostro corpo. Non dimentichiamo che espressione del potere medico è anche stigmatizzare, stabilendo, su presupposti di fede scientifica,  cosa è sano e cosa è malato. A riconferma di ciò, basti ricordare che le persone omosessuali fino a poco tempo fa e le persone trans tutt’ora, venivano e  vengono considerate patologiche dalla medicina a livello ufficiale (vedi “disforia di genere”) e che in ragione di ciò i propri corpi e identità vengono ancora oggi sottoposte a processi medicalizzanti. 
        
Storicamente, le lotte femministe per la liberazione delle donne hanno riconosciuto nel sistema capitalistico medico e tecnologico un nemico, in quanto fautore dell’oppressione eteropatriarcale. La lotta delle Rote Zora, spesso citata negli ultimi tempi, ha incluso molteplici attacchi all’ingegneria genetica e al potere medico, sempre a partire dal più ampio obiettivo di distruggere un sistema di potere patriarcale a ogni livello: 
“le Rota Zora partecipano in maniera attiva dal 1982 con svariati attacchi esplosibi e incendiari al movimento delle donne contro le ecnologie genetiche e riproduttive e contro la politica demografica. Questo movimento critica in chiave femminista il rogresso scientifico attorno alla genetica umana e alle biotecnologie” (Rote Zora guerriglia urbana femminista, pag.98).
In questa come in diverse altre esperienze di lotta antipatriarcale contro il sistema medico, parallelamente all’attacco agli strumenti di oppressione in mano al potere, vi erano anche percorsi di riappropriazione delle pratiche di autocura e di autoconoscenza del proprio corpo. Cioè, di quelle stesse pratiche messe al bando da una scienza medica che, quando si spaccia per preventiva o per curativa che sia, propina a tutta la popolazione indiscriminatamente la medesima terapia, a prescindere dalle differenti soggettività cui è indirizzata, in modo oggettivo e oggettivizzante, ponendosi come obiettivo la sparizione rapida dei sintomi per affermare il ritorno di un corpo (apparentemente) sano e produttivo. Tutt’ora, nel tentare di abbattere quella medicina oggettiva e oggettivizzante di tutti i corpi imposta dalla religione della scienza, emerge l’urgenza di creare relazioni di cura e recuperare saperi che sappiano invece rispettare le diverse soggettività con le loro differenti esigenze. 
        
        
Individux  contro il paternalismo
        
Crediamo nell’importanza di poter liberamente affermare le nostre fragilità,  quando e come riteniamo, crediamo  che non sia sindacabile la nostra decisione e che sia doverosa una cura e un rispetto di quelle altrui. Il paternalismo è da sempre nemico di tutto questo approccio alla vita.
Dall’inizio della pandemia, la retorica propagandistica sulla tutela delle <persone fragili> è stata centrale nel far leva sulla ricerca di consenso di misure quali lockdown e vaccinazione. Lo stato ha messo in atto, in maniera strumentale, un atteggiamento paternalista e infantilizzante nei confronti della popolazione: in particolar modo si è parlato in nome e per bocca delle persone considerate         fragili sulla base dell’età o dell’esistenza di patologie pregresse, oggettivizzando sia la loro condizione di “fragilità” sia ciò che rappresentava la tutela della loro salute, senza che ci fosse spazio per una loro presa di parola, per la loro  autodeterminazione. Così come accaduto in questo caso, in altre situazioni e contesti la condizione di “fragile” è stata associata alle donne, puntando a giustificare così una serie di strumenti paternalisti di tutela che hanno l’effetto di delegittimare ogni scelta individuale diversa di autodifesa.        
La salvezza della mera vita biologica è stata quindi posta a priorità assoluta nell’interminabile emergenza, producendo una condizione di terrore, nella quale non c’era e tutt’ora non c’è spazio per priorità valoriali diverse da una sopravvivenza in stato di isolamento, per l’autogestione della propria salute, per la messa a critica e ricerca di altre soluzioni e vie possibili per se stess*. Il controllo, la coercizione e l’isolamento ci vengono ripetutamente presentate come uniche strategie di salvezza. 
        
Crediamo che a nessuno può spettare un giudizio di valore alcuno, né in un verso né nel suo opposto, sulle scelte individuali, peraltro così profonde e spesso difficili, rispetto alla relazione di ciascun* con la malattia e con la morte. Non può spettare a nessuno se non a sè stess*. Perciò, tantomeno crediamo che questo possa spettare a una scienza nemica che si pretende egemonica. 
Lo stesso ragionamento lo applichiamo rispetto alla scelta individuale di ciascunx di vaccinarsi o meno, così come di servirsi della medicina o meno, poiché ciò per cui lottiamo è proprio il contrario, cioè la nostra autodeterminazione, pur sempre dentro la società capitalista nella quale siamo immers* fino al collo insieme alle nostre contraddizioni. E molto spesso esistono sistemi diffusi di oppressione verso i quali è quantomeno più urgente difendersi (razzista, sessista, transfobico, classista, ecc..). Quello che però ci pare evidente è la realtà allarmante di come l’imposizione ricattatoria del vaccino e lo stigma sociale nei confronti di chi sceglie di non vaccinarsi ricalchino le stesse modalità ben note a cui la scienza medica da sempre ci sottopone, più o meno a seconda dei periodi, togliendo sempre più spazio alla libertà di scelta sui propri corpi. 
Conclusioni
Le lotte femministe del passato al grido de “Il corpo è mio e decido io” e “Stato e chiesa fuori dalle mutande” ci parlano ancor più forte nell’oggi e non crediamo che di fronte a una pandemia questi slogan perdano di senso. Al contrario, dovremmo recuperarli e farli ancor più nostri ora, affinchè le lotte che tante e tant* hanno  portato avanti per la liberazione e l’autodeterminazione dei nostri corpi non siano state vane. Crediamo che soggettività e corpi non conformi non possano che essere alleat* in questo, al di là di ogni scelta individuale o necessità da cui è mossa, e organizzarsi per difendere la libertà di decidere per i nostri corpi. Convinte che se ciò non avverrà, il capitalismo ci avrà schiacciate una volta di più.
Contro la medicina capitalista e patriarcale
Per l’autogestione dei nostri corpi
positiva ma non positivista
*questo testo è stato elaborato e scritto, prima della previsione del super greenpass, ecco perchè non viene nominato.  Non vuole in ogni caso essere un testo esaustivo sull’argomento, ma la trascrizione di una parte della discussione che è ancora in corso e da cui speriamo emergeranno altri contributi. Sono benvenute critiche e commenti.
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CONTRO LA PANDEMIA DELLA REPRESSIONE SOLIDALI CON CHI LOTTA

Di seguito volantino distribuito il 13.11.21, duranto il corteo contro la repressione indetto dal comitato dei disoccupati 7 novembre

Contro La Pandemia della Repressione Solidali con chi Lotta

Che cos'è la caccia alle streghe?

A un anno e mezzo dall’inizio dello stato d’emergenza sanitario, a pagare i mali di questa società capitalista e patriarcale sono sempre di più sfruttate e oppresse di questo mondo, istigate dallo Stato ad additarsi l’un l’altra come untrici. Lo Stato e i suoi scienziati vorrebbero far ricadere ogni colpa su chi protesta e si ribella nelle piazze, nei luoghi di lavoro, dentro le gabbie e alle frontiere di questa società, su chi sceglie di non vaccinarsi, su chi si ribella al ricatto del green pass.

A noi invece è molto chiaro chi sono i veri responsabili

La caccia all’untrice e un giudizio moralizzante sull’agire del singolo individuo sono oggi ulteriori strumenti repressivi, oltre ai soliti di natura giudiziaria, che puntano a dividere e spezzare le lotte. Repressione giudiziaria che si è acuita durante l“emergenza”: dagli attacchi a chi ha portato la sua rabbia in piazza o sui luoghi di lavoro, alle operazioni repressive come quella (l’ennesima) antianarchica che negli ultimi giorni ha portato ad arresti e perquisizioni, ancora una volta per l’accusa (oramai di moda nelle procure…) di istigazione a delinquere con finalità di terrorismo.

In questi tempi non possiamo rassegnarci, ma reagire agli attacchi dello Stato.

Da sempre, Stato e padroni vanno a braccetto nella produzione di un mondo tossico e nocivo. Anche le misure prese in questa pandemia hanno avuto come obiettivo la tutela dei profitti del capitale, non di certo la nostra salute.

Possiamo davvero pensare che l’unica alternativa possibile sia tra l’accettare di essere sfruttatx sul posto di lavoro oppure criminalizzatx quando non partecipi del sistema “legale” di produzione e messa a profitto delle nostre vite?

È molto di più ciò che vogliamo per noi stessx e che ci dobbiamo riprendere.

Durante questa pandemia, quando ad alzare la testa sono statx lx ultimx della società, lo Stato non ha risparmiato i suoi colpi peggiori. Non dimentichiamo che alle rivolte nelle carceri del marzo dell’anno scorso, da Santa Maria Capua Vetere a Modena, la risposta è stata una strage, nella quale 14 persone detenute sono morte, e molte altre sono state massacrate. Mentre lo Stato, come è ovvio, autoassolve se stesso e i propri vertici, su tutta la penisola continua la repressione giudiziaria delle rivolte: di questi giorni è la notizia delle indagini a carico di 70 detenuti per devastazione e saccheggio e altri reati legati alla rivolta nel carcere di Modena.

Non dimentichiamo nemmeno le centinaia di persone migranti che durante la pandemia lo Stato ha ingabbiato e isolato sulle Navi Quarantena, un dispositivo di detenzione che moltiplica e allarga la frontiera. Anche sulle navi quarantena non sono mancate rivolte e proteste, passate sotto silenzio.

Poiché vorremmo un mondo senza galere, né frontiere, non possiamo che esser solidali con loro.

Come persone che il patriarcato vorrebbe piegare e opprimere, ci troviamo quotidianamente a dover lottare per la libertà, la salute e l’autodeterminazione dei nostri corpi. Ci rendiamo bene conto oggi che, in modo sempre più diffuso, scegliere per il proprio corpo è motivo di repressione nel falso nome di una scienza patriarcale che da sempre vuole imporci la sua autorità.

Stato e patriarcato fuori dalle nostre vite

Per l’autodeterminazione e l’autodifesa dei nostri corpi

Solidali con chi alza la testa ed è colpitx dalla repressione

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Comunicato in seguito al processo di Jennifer

Pubblicato il 11 luglio 2021 | Aggiornato il 21 luglio

Jennifer è una donna trans incarcerata nella prigione di Seysses dal giugno 2020, per aver accoltellato il suo stupratore per strada. Il suo processo si è svolto al Tribunal de Grande Instance di Tolosa il 10 giugno 2021. È stata condannata a 5 anni di reclusione, di cui 3 in carcere, e condannata a pagare quasi 10.000 euro di risarcimento. Il messaggio della corte è chiaro: non è così grave se vieni violentata, l’importante è che tu non reagisca. Questo comunicato fa seguito al processo di Jennifer che si è tenuto al Tribunal de Grande Instance di Tolosa il 10 giugno 2021.
Per coloro che non conoscono la sua situazione: Jennifer è una donna trans che è incarcerata nella prigione di Seysses dal giugno 2020. Per 9 mesi è rimasta in isolamento nella prigione maschile, per
il solo motivo della sua identità trans. Finora, come gruppo di supporto, avevamo scelto di comunicare solo riguardo alle sue condizioni di detenzione. L’accesso alle sale di visita era molto
complicato per i suoi parenti, così come l’accesso ai prodotti della prigione, e sta ancora aspettando un lettore DVD ordinato in ottobre. La nostra priorità è stata quindi – per evitare ripercussioni durante la sua incarcerazione o il processo – di mantenere il legame con lei e di attivare tutte le leve possibili per rendere la sua vita quotidiana più dignitosa. In seguito al suo cambiamento di stato civile, è stata trasferita nel carcere femminile, e noi continuiamo a mobilitarci per sostenerla a livello materiale ed emotivo.
Oggi, vogliamo rendere pubblica la nostra posizione sulla sostanza del caso e sul suo trattamento giuridico. Jennifer è stata imprigionata dopo aver accoltellato il suo stupratore per strada. È stata condannata a 5 anni di reclusione, di cui 3 in carcere, e condannata a pagare quasi 10.000 euro di risarcimento. Il messaggio della corte è chiaro: non è così grave se vieni violentata, l’importante è che tu non reagisca.
Nel giugno 2020, un uomo stupra Jennifer. Lei fa lavoro sessuale, lui le chiede una prestazione, lei rifiuta. Lui la picchia, la minaccia, la stupra. Le ruba le sue cose, i suoi soldi, il suo telefono. Qualche giorno dopo, lei lo riconosce per strada. Lei grida “è lui che mi ha violentato” e ne segue una lotta a colpi di coltello, alla fine della quale l’uomo esce ferito e a rischio di vita. Mentre l’aggressore sostiene che Jennifer lo ha attaccato per soldi, i testimoni  confermano la versione di Jennifer. Infatti, sia il telefono di Jennifer che quello dell’aggressore sono stati geolocalizzati nella stessa posizione: l’indirizzo dell’aggressore. “Inquietante”, ha detto il presidente. I magistrati erano d’accordo: non siamo qui per discutere dello stupro. Eppure questo è stato il punto di partenza di ciò che l’ha portata in tribunale quel giorno. I magistrati non erano lì per discutere dello stupro, ma ne sappiamo tutto fino alle ragioni del vestito che Jennifer indossava quella sera.
Il giudice ha sottolineato che Jennifer non si è presentata a fare  denuncia alla stazione di polizia. Cosa poteva aspettarsi da una denuncia, tra l’altro? I suoi avvocati hanno spiegato che Jennifer
aveva cercato di presentare denunce diverse volte nel corso degli anni. Citano un amico: “Ci sono stati almeno dieci attacchi all’anno nel corso di 15 anni. Alla stazione di polizia ci insultano, ci dicono che “i trans sono fuori”. Jennifer non ha mai avuto accesso alla giustizia e al riconoscimento.
Inutile dire che nessuna denuncia è mai stata presa in carico. Jennifer è una lavoratrice del sesso trans che non è mai stata presa sul serio dalla polizia o dai tribunali per le violenza che subisce. Mai magistrati hanno convenuto che non era quello il luogo per parlare di stupro, durante il processo di una donna che ha attaccato il suo stupratore. Come non fare il collegamento con i casi di Kessy, una giovane donna condannata a 12 anni di prigione per aver colpito uno stalker, causandone involontariamente la morte, e Valerie, condannata per aver ucciso il suocero/marito dopo anni di violenza sessuale.
La posizione della magistratura è chiara: criminalizzare le donne che si difendono, quando la loro protezione e il risarcimento del danno subito non sono mai stati assicurati; la loro rabbia non è accettabile, la loro violenza non è accettabile, la loro autodifesa non è accettabile, la loro vendetta non è accettabile. Lo stupro di Jennifer non era il problema. Eppure lo stupro è un crimine, se c’è bisogno di ricordarlo.
Secondo il rapporto psichiatrico di Jennifer, lei è socialmente pericolosa e incapace di gestire la propria rabbia senza agire. Questa perizia psichiatrica è in linea con la classica retorica transmisogina: le donne trans sono in realtà uomini travestiti da donne, e come tali sono impostori pericolosi e violenti. Durante tutto il processo, i magistrati non hanno perso una sola occasione per ricondurre Jennifer al suo sesso assegnato alla nascita, per farne la colpevole ideale, pericolosa e incontrollabile. Poco importa che il punto di partenza di questa storia sia uno stupro, non è il suo stupratore ad essere pericoloso, né tutti gli autori delle numerose aggressioni sessuali che ha subito prima di questa. Secondo la perizia psichiatrica e il tribunale, è Jennifer ad essere pericolosa.Eppure, nelle sole quattro ore del processo, non ha reagito al disprezzo, alla violenza e alla disumanizzazione che le sono state inflitte. Queste includevano la volgare transfobia di menzionareil suo nome assegnato alla nascita, di usare un vocabolario più che inappropriato, di ricordare che “all’epoca dei fatti [era] un uomo”, di sbagliare i pronomi in maniera ripetuta, e di riportarla costantemente al fatto che non sarebbe una vera donna. Infatti, quando un testimone ha raccontato di aver visto una donna a terra, il presidente della sessione ha riformulato aggiungendo: “pensavi che fosse una donna”. Il testimone ha ripetuto: “Ho visto una donna a terra”. Dov’è la considerazione di tutta questa violenza nel suo giudizio? E dov’è la considerazione di tutte le violenze che ha subito nella sua vita? Quale considerazione viene data all’estrema violenza subita da donne come Jennifer, Kessy, Valerie durante la loro vita? Quale considerazione viene data all’estrema violenza subita dalle lavoratrici del sesso trans? Non si è parlato di stupro quel giorno, eppure se Jennifer fosse stata ascoltata, sostenuta e protetta,saremmo qui? È stata quindi condannata a 5 anni, di cui 3 in carcere.Facciamo appello alla vostra solidarietà. Raccontiamo la sua storia. Trasmettiamo questo testo. Scriviamole. Mandiamole dei soldi.

Contatto: solidaritejennifer@riseup.net

Donazioni: https://www.paypal.com/pools/c/8tsUqYi4c2

 

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Altre Resistenze, disseppelliamo le nostre storie

Nei giorni della memoria della resistenza, cerchiamo il filo che ci lega a quella storia, cerchiamo i racconti di quelle persone che oggi come ieri furono le più schiacciate e oppresse dal regime fascista, di quelle vite marginali che si sono ribellate e che nella resistenza hanno anche lottato per la propria affermazione. Sono storie di vita, di dissenso, di costruzione di legami e di apprendimento, sono esistenze che hanno tracciato il cammino di una resistenza che non è mai finita e che continuiamo a scrivere. 

Sentiamo il bisogno di raccontare e disseppellire quelle narrazioni che la Storia ufficiale ha lasciato da parte. vogliamo raccontare, insieme alla resistenza delle donne, anche quella di altre soggettività che contribuirono alla Resistenza.

Abbiamo raccolto e scelto alcuni racconti fra i molti che ci piacerebbe riportare, provando a tenere insieme le resistenze  sulle linee del genere, della razza e della classe, in alcuni casi è davvero difficile trovare anche solo poche righe che parlino di queste esperienze. Se negli anni la storia delle donne nella resistenza è riuscita ad affermarsi, grazie alle lotte delle donne, questo resta ancora complesso per altr* soggettività, e bisogna ancora inistere per farne emergere le tracce.
Kebedech Seyoum
Nel 1935, l’Italia invade l’Etiopia. Nonostante la superiorità tecnologica dell’esercito italiano che usa carri armati, aerei e gas, e la fuga dell’imperatore Hailié Selassieall’estero, c Kebedech Seyoum era una di loro. Nata nel 1910, era sposata con un nobile di origine reale, capo di un esercito. Pochi giorni dopo aver partorito, apprende che suo marito è stato ucciso dai militari italiani, dopo essersi arreso con la promessa di aver salva la vita.
Kebedech riunisce un esercito sotto il suo comando e affronta ben 14 volte l’esercito italiano. Si rifugia nel Sudan,dove muore nel 1976.
La Brigata Mario e i partigiani d’oltremare
Oggi la Mostra D’Oltre mare a Fuorigrotta è un enorme padiglione fieristico, ma poche persone conoscono la storia che lega questo luogo al passato coloniale italiano. 
Nel 1940, con lo scopo di mettere in mostra la vita e gli usi nelle colonie, sessanta persone fra eritrei, somali ed etiopi furono imbarcati per Napoli e chiamati ad incarnare la diversità delle terre coloniali e a trasformarsi in motivo di attrazione e istruzione. Furono ingaggiati soprattutto operai e artigiani, dal momento che il compito di queste persone era anche costruire da sè i villaggi in cui si sarebbero esibiti.
L’esposizione, però, ebbe vita breve. Un mese e un giorno dopo l’inaugurazione, l’Italia entrò in guerra e, a causa delle leggi razziali, fu proibito ogni contatto con l’esterno ai prigionieri delle colonie presenti nella mostra. Lontano dai propri riferimenti, dalle proprie case e dai propri affetti, molte persone si ammalarono sia fisicamente che mentalmente, anche a causa del cambiamento di ambiente. Nel ’43 i nativi, che vivevano come internati, furono trasferiti nel «Campo indigeni di Treia», nelle Marche centrali, un alloggio dove furono costretti a vivere in un regime di semilibertà. Tre di loro, Abbagirù Abbauagi, Scifarrà Abbadicà e Addisà Agà riuscirono a fuggire e, grazie al sostegno della gente che li guidò verso i nascondigli dei partigiani, raggiunsero il San Vicino, per unirsi alla “banda Mario”. 
Così chiamata per il suo comandante Mario Depangher, ex prigioniero istriano, la banda Mario fu uno dei primi gruppi della resistenza marchigiana e ben presto finì per agglomerare  croati, serbi, inglesi, russi, scappati dei campi per prigionieri di guerra, ma anche somali, eritrei ed etiopi. Un mix di lingue, culture e religioni, “a very mixed blunch”, l’avrebbe definito un membro britannico della brigata, unito dallo stesso obiettivo: liberare l’Italia dall’invasione nazifascista.
Delle imprese partigiane degli africani del battaglione Mario non si sa molto. Certo è che presero parte a tutte le rappresaglie del gruppo che per 10 mesi fu uno dei più attivi nell’entroterra maceratese. Molti persero la vita , tra questi anche Carlo Abbamagal, ucciso il 24 novembre 1943 nel corso di una missione a Frontale di Apiro, durante la quale furono catturati alcuni tedeschi e un interprete italiano. 
Oggi c’è una lapide a ricordarlo, nel cimitero di San Severino Marche. Vi si legge: “Nato ad Addis Abeba, morto sul Monte San Vicino. Etiope partigiano del Battaglione Mario di San Severino Marche. Insieme ad altri uomini e donne provenienti da tutto il mondo, caduto per la libertà d’Italia e d’Europa”.

 

La barricata dei femminielli a piazza Carlo III
Dal 27 al 30 settembre 1943, Napoli si insorge contro le truppe tedesche e si copre di barricate. Durante queste giornate parteciparono anche un gruppo di femminielli del quartiere San Giovanielli, dietro piazza Carlo III. Rubarono learmi nella caserma di corso Malta per poi difendere una barricata che impediva l’entrata nel quartiere. Parteciparono anche ai combattimenti tra via Foria e piazza Carlo III. Si dice che i femminielli si potevano permettere di essere in prima linea, perché non avevano niente da perdere, non avendo famiglie. Avevano anche una grande abitudine nel confrontarsi con la polizia, in quanto perseguitate dalla polizia fascista. Alcuni furono pure mandati al confino.
Tra i leader di questo gruppo c’era Vicienz’ o’ femminiell’. Viveva in un basso di via Santi Giovanni e Paolo, dove vendeva panini, sigarette e fazzoletti, e si prostituiva la sera. La sua casa serviva da luogo di incontro per i femminielli della zona. Secondo le testimonianze, è nel suo basso che si incontrarono per decidere cosa fare durante le 4 giornate, o forse in un terreno dove avevano l’abitudine di incontrarsi, accanto a un cinema della zona. Negli anni ’80 Vicienz’ partecipera anche alle proteste contro l’abusivismo edilizio post-terremoto.
Dovremmo aspettare il 2018 perché il comune installi una targa commemorativa della loro partecipazione alla resistenza.
La resistenza di omosessuali e lesbiche 
Sappiamo molto poco degli omosessuali e delle lesbiche che hanno partecipato alla resistenza, anche se devono essere stati sicuramente numeros*. A causa della mancanza di ricerca storica su questo argomento, le loro storie non sono state ancora portate alla luce. Qui ne vorremmo raccontarne alcune.
Per alcun*, la resistenza comincia ben prima della guerra, come nel caso di Maria Antonietta Falorni (1910-1982) e della sua compagna Renata-Gradi (1910-?). Studentesse all’università di Firenze, alla fine degli anni 1920, creano una  rete antifascista. Nel novembre 1930 vengono arrestate e condannate a 5 mesi di carcere per aver diffuso un volantino antifascista.
I legami emotivi hanno giocato un ruolo importante nelprendere parte alla resistenza di molti omosessuali, come fu per Carlo Coccioli, partigiano nella formazione Giustizia e Liberta in provincia di Firenze dal 1943, che dopo la guerra ha raccontato dell’importanza delle sue relazioni con i suoi due aiutanti di campo. 
O per Franco Zeffirelli, anche lui partigiano in provincia di Firenze, sul Monte Morello con la divisione Arno, che ha raccontato di aver avuto la sua prima storia d’amore e la sua prima esperienza sessuale con un altro partigiano. Dichiara nel 2013: “Scoprii l’amore. Feci la mia conversione sessuale lassù, in montagna. In quegli aspri momenti con la morte che incombeva mi si rivelò l’uomo in tutta la sua straordinaria bellezza”.
Alcuni di lorosubirono discriminazioni ancheall’interno dei propri movimenti partigiani. Un caso emblematico è quello di Josip Mardešic,proveninte dall’isola di Lissa, oggi in Croazia, ma dal 1941 al 1943 parte dell’Italia. E’ là che raggiunge i partigiani del partito comunista nell’autunno 1941. Incaricato delle trasmissioni radio, Josip sviluppa un sistema di comunicazione radio criptato tra i diversi gruppi partigiani sparpagliati per la Croazia. Diventa così un membro dello stato maggiore dei partigiani. Tuttavia, nel febbraio del 1944 le sue relazioni intime con alcuni partigiani furono scoperte e, anche per la visibilità che aveva ottenuto nel movimento, divenuto nel frattempo l’Esercito Popolare di Liberazione, fu condannato a morte e fucilato il 4 marzo del 1944, per aver “pervertito” i soldati e danneggiato l’immagine dell’esercito. 
Per molt* altr*, la militanza non si ferma con la caduta del fascismo. Se Maria Antonietta Falorni milita dopo guerra nel movimento comunista, altr* militano anche per i diritti omosessuali. Carlo Cocciolo, che dopo il fronte si laureò all’Orientale di Napoli, fece scandalo nel 1952 con la pubblicazione di Fabrizio Lupo, romanzo che racconta di un giovane cattolico che scopre la sua omosessulaità. A causa dello scandalo, si trasferisce in Messico, dove visse fino allamorte, avvenuta nel 2003. 
Un altro caso è quello di Aldo Braidanti (1922-2014), militante a Firenze nel movimento Giustizia e Liberta dal 1940 e poi nel partito comunista. Nel 1968 fu condannato a 9 anni di carcere (ne farà solo 2) per “plagio” in seguito alla sua relazione col giovane Giovanni Sanfratello, figlio di un fascista. Il reato di plagio era previsto dal codice penale fascista, ed era definito come il “sottoporre una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione”. La sua condanna suscita un movimento di sostegno da parte degli intellettuali, che ha condotto all’abolizione del reato nel 1981.
Le Mondine

“son la mondina son la sfrutatta son la proletaria che giammai tremò, mi hanno uccisa incatenata, carcere, violenza, nulla mi fermò”

Dal 12 al 21 giugno del 1944 si svolge lo sciopero generale nelle risaie, al quale prendono parte 6-7000 mondine della Bassa bolognese, del ferrarese e della Romagna. L’agitazione fu preparata dai comitati comunali. Le scioperanti, pur stremate dalle privazioni portate dalla guerra, presero parte allo sciopero supportate dai Gruppi di Difesa della Donna.
Le rivendicazioni vennero pubblicate  sul foglio clandestino “La Mondariso”  fondato proprio in occasione di questo sciopero, scrivono le Mondine:
“I padroni sfruttatori e i falsi sindacati fascisti sono in lega per tenere il piede sul collo; essi vogliono succhiarci fin l’ultima goccia di sangue che ci rimane; vogliono tenerci schiavi per servirsi di noi come bestie. […]
I sindacati scoprono da soli il loro gioco: essi sono i difensori dei padroni e gli aguzzini della massa operaia. Noi li smascheriamo e li combattiamo. Non vogliamo più saperne dei falsi sindacati fascisti; non abbiamo bisogno di intermediari ruffiani.
I sindacati siamo noi!
Noi andremo dai padroni e diremo: vogliamo ridurre le ore di lavoro; vogliamo l’aumento di paga; vogliamo il latte, la colazione e la minestra; un vestito e un fazzoletto da lavoro; vogliamo due coperture per bicicletta; vogliamo 4 Kg. di riso per ogni giornata di lavoro; vogliamo i rifugi antischegge sul luogo di lavoro per ripararci durante l’allarme. […]
Se no faremo sciopero. Questo è quello che diremo ai padroni.
Ai sindacati fascisti e a tutti i traditori fascisti noi diremo: voi ci avete tenuto il piede sul collo 20 anni ed ora volete rendere più pesanti le catene che ci opprimono; voi avete chiamato i tedeschi in Italia a rubarci i nostri uomini e
nostri prodotti; voi ci avete portati alla fame e alla rovina. Noi vi odiamo e vi combattiamo. I nostri partigiani ci difenderanno e noi li aiuteremo in questa lotta per dare a voi la morte e per scacciare gli oppressori tedeschi.”

                           La Mondina

L’azione venne concordata con i partigiani delle Gap e Sap di pianura.

A Baricella il 12 giugno squadre fasciste andarono casa per casa armi in pugno a costringere le mondine ad andare in risaia, ma la lotta riprese ugualmente nei giorni successivi. Nel mentre gli operai della Ducati e della Mazzaferri scioperano in solidarietà alle mondine e imponenti manifestazioni di donne costrinsero i commisari prefettizzi di Galliera e Granarolo ad andarsene. Lo sciopero fu un successo!
Lo sciopero per le Mondine non era una novità infatti di scioperi nel passato già se ne erano visti molti nelle risaie fin dall’800 e molti avevano avuto successo, come nel ’27 quando il regime fascista voleva imporre una diminuzione del salario e in 10 mila parteciparono allo sciopero. La mobilitazione delle mondine spaventò il rgime  a tal punto che le riduzioni del salario vennero ridimensionate notevolmente. 
Renata Berti, mondina incarcerata due volte nel ’32 e nel’43 a Medicina per la sua attività antifascista, ci racconta invece lo sciopero del 1931 che si concluse dopo tre giorni con l’accettazione delle richieste salariali delle mondine.
La mattina dello sciopero le mietitrici invece di andare nei campi, presero le biciclette e andarono per la strada, allora a catena le mondine le seguirono.
Il secondo giorno dello sciopero passò un camion di fascisti che urlava alle mondine di tornare a lavorare, fra questi vi era uno che aveva un negozio in cui andavano molte donne, Renata e le altre convinsero con successo le donne a boicottare il negozio del fascista. 
“Se otto ore vi sembran poche provate voi a lavorare e sentirete la differenza di lavorar e di comandar.” 
I Gruppi di Difesa della Donna
Nel Novembre del 1943,  si costituiscono a Milano i Gruppi di Difesa della Donna, un’organizzazione trasversale a cui partecipano donne provenienti da diversi partiti, con estrazioni sociali e di classe diverse. I Gdd  si radicarono in molte città e divennero presto  un nodo fondamentale di connessione fra la resistenza civile nelle città e quella armata sulle montagne, coinvolgendo circa 70 mila donne. 
Nell’atto costitutivo, viene indicato il programma d’azione dell’organizzazione con queste parole:
«[…] in ogni momento, in ogni quartiere, in ogni fabbrica, ufficio, scuola, villaggio, si formano i gruppi e operano attivamente:
-diffondendo fra le donne la persuasione della lotta contro il traditore fascista o il tedesco
-organizzazione nelle fabbriche, negli uffici, nelle scuole e nei villaggi, la resistenza al tedesco, il sabotaggio della produzione, il rifiuto dei viveri e delle provvigioni, preparano le donne a combattere a fianco dei lavoratori tutti per la liberazione comune.
-isolano i traditori e i tedeschi, creano intorno a loro e nella loro famiglia un’atmosfera di odio e di disprezzo in attesa che li colpisca la giusta vendetta del popolo.
-raccolgono denaro, viveri, indumenti, per combattenti internati in Germania e prigionieri antifascisti
-faranno in modo che la cultura, attraverso il libro e la parola, rischiari la via della liberazione, riaffermi il desiderio della lotta e ne insegui i modi e le personalità, mostri come l’Italia liberata, potrà diventare davvero la madre degli italiani.»
I gruppi dunque oltre ad organizzare il supporto logistico ai partigiani, promuovevano manifestazioni e sabotaggi, così come a Bologna quando il 3 Marzo del 1945 un nutrito gruppo di donne invase la sede del comune e malmenò un ufficiale che non voleva cacciarle. poi le manifestanti percorsero via Ugo Bassi e si recarono al magazzino del sale per rivendicarne la distribuzione.
Le donne coinvolte nei gruppi di difesa pubblicano clandestinamente la rivista “Noi donne” e “la voce della donne”, sulle cui pagine oltre a diffondere le loro idee antifasciste e contro la guerra, emergono chiare le basi di rivendicazioni quali la parità salariale, il voto e in generale l’indipendenza delle donne.
Comandante Laila
Fra le animatrici dell’esperienza dei gruppi di difesa della donna, c’è Anita Malavasi, staffetta partigiana e poi comandanta di distaccamento nella 144ª Brigata Garibaldi “Antonio Gramsci”.
Nata da famiglia contadina socialista, trasferitasi nel 1938 a Reggio Emilia, dove incontrò e fece esperienza della cultura operaia. L’essere nata in un ambiente antifascista, la portò subito dopo l’armistizio a diventare partigiana. Inizialmente portava le armi da Reggio Emilia all’appennino, ma quando il suo lavoro di staffetta divenne troppo pericoloso, dovette entrare in clandestinità sulle montagne con il nome di Laila. Il nome Laila lo scelse da un romanzo, era una principessa Atzeca che alla morte dell’amato prese il suo posto in guerra per combattere contro l’invasore spagnolo.
Sulle montagne Laila non imparò solo ad usare le armi, ma prese coscienza della propria condizione di donna, scrive così:
“In montagna si dormiva insieme, per terra, nei boschi, uomini e donne, ma se uno mancava di rispetto veniva punito. L’amore non contava niente. L’importante per noi era aiutare. Io ero anche fidanzata, lo lasciai quando mi disse che fare la partigiana mi avrebbe reso indegna di crescere i suoi figli.”
E così fece, lasciò il fidanzato per restare a combattere sui monti, dove fu incaricata al comando di una formazione di circa una quarantina di staffette e combattenti, nell’ufficio informazioni della brigata a Vetto.
Alla fine della guerra fu nominata sergente maggiore.
Dopo la guerra entrò nel partito comunista e dedicò molti anni all’organizzazione dei gruppi di donne e al lavoro sindacale a sostegno delle lavoratrici. 
“Era un mondo maschilista. Soltanto tra i partigiani la donna aveva diritti, era un compagno di lotta. La Resistenza ci ha fatto capire che nella società potevamo occupare un posto diverso.”   
Laila
Il funerale delle sorelle Arduino
Vera e Libera Arduino sono due sorelle entrambe operaie impegnate nella lotta partigiana e appartenenti ai gruppi di difesa della donna torinesi. A causa della loro attività antifascista vennero trucidate nella notte fra il 12 e il 13 Marzo del 1945. In tutta la periferia di casa in casa, di donna in donna, venne passata parola di proclamare lo sciopero nelle fabbriche e di riunirsi tutte al funerale delle sorelle Arduino.
Il 16 Marzo giorno dei loro funerali centinaia di donne si presentarono al cimitero monumentale di Torino con dei segnali di riconoscimento di colore rosso, sciarpe, mazzi di garofani, maglioni rossi, ma anche cartelli che condannavano la violenza fascista. L’assembramento di donne richiamò presto un unità fascista che arrivò prima in borghese e poi in forze attaccando le donne e cercando di disperderle, una di loro cominciò ad insultare gli uomini in divisa e mentre le guardie cercavano di portarla via, le amiche la circondarono nascondendola e permettendole di scappare. 
Quando arrivarono i carri funebri che trasportavano le spoglie di Vera e Libera, una donna urlò, “inginocchiamoci!” e tutte le donne, intonando un canto di resistenza si inchinarono alle compagne cadute.

 

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Luna e Gea – Utopie e Distopie di Marzo

 

Compagnx, sorelle, amicizie e parentele di ogni dove, da un tempo futuro ci è stato inviato questo podcast. Il finale è ancora tutto da scrivere. Pare tocchi proprio a noi…

Buon 8 marzo di lotta (ops, scusate il ritardo) a tuttx coloro che lottano ogni giorno, e buon ascolto!

 

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